È tornato in Italia Lucas Santtana, dopo una apparizione a Milano e Firenze lo scorso novembre, per due date – una romana il 15 luglio e una recente, il 4 agosto, al Dromos festival di Oristano. Ad attirare l’attenzione europea e guadagnargli un contratto discografico inglese l’album del 2009, Sem nostalgia, voce e chitarra che fanno una banda, e parecchi musicisti a usare lo strumento unico in forme molteplici. Una carriera che inizia a 23 anni partecipando all’incisione di Tropicalia 2 di Caetano Veloso e Gilberto Gil, ma che subito si dirige verso territori più inusuali, esplorando stili e affinando le armi, il tiro, il gusto, la traiettoria. Legato a Bahia, prende parte ai lavori dei Baiana System, che insieme al suono della chitarra baiana, l’elettrica a 4 o 5 corde usata nei ruggenti Carnevale degli anni 60 e 70, vogliono riprendersi strade e cuore di Salvador, la Roma negra. Figura centrale e interprete versatile del suono che veloce si trasforma e attraversa il nuovo Brasile, sarà in trio con Bruno Buarque e Caetano Malta, samplers, mpc, percussioni, basso, chitarre.
«O Deus que devasta mas tambem» cura (Il dio che
devasta ma anche cura) è il titolo del tuo disco e dello show che porti
in Europa. Chi è questo dio?
Il titolo nasce da uno scambio di tweet, mi
scrissero «il dio devasta» e io risposi «ma cura anche». È una metafora
degli dei della natura, come il tuono, la tormenta, che si manifestano
come dominatori che nulla riesce a fermare, insieme a quelli che abitano
a volte il nostro corpo come l’amore, l’odio, la rabbia, il dolore, la
sofferenza.
Sei al quinto disco, hai cambiato moltissimo,
spaziando fra stili molto differenti, dal funky all’mpb,
all’elettronica, al dub: cosa resta e cosa cambia oggi nella tua musica?
Nel mio lavoro ho sempre cercato l’autorialità, un suono personale.
Così nel primo disco ho trovato alcune cose, nel secondo ho scoperto che
non ne conoscevo molte altre, e in questo tipo di lavoro il tempo è un
grande alleato, perché tu continui accumulando esperienze, continui a
imparare e a ricercare, non sapendo mai quello che sarà. Trovare nel
quinto disco i lavori passati insieme a cose nuove è naturale, c’è
l’apprendistato che ho fatto con me stesso, nella mia ricerca, insieme
al gusto di avventurarmi in luoghi sconosciuti. I dischi ogni volta sono
diversi, ma portano un precedente che forma uno stile, una firma, un
marchio. Credo che in tutti si ritrovi la mia maniera di pensare musica,
per “strati “ di suono, per muri di suono. Compongo canzoni normali,
con melodia, ritmo, armonia, ma il mio grande piacere, quando registro, è
costruire architetture sonore intorno alla musica, un elemento che
rimane sempre.
Collabori con moltissimi musicisti, Céu, Curumin, la
canzone «O deus que devasta mas tambem cura» l’avevi già incisa nel
disco di Amabis («Memorias luso-africanas»): qual è l’importanza della
collaborazione fra musicisti?
È molto importante, credo sia la caratteristica di
questa mia generazione, tutti partecipano ai dischi di tutti, c’è una
collaborazione enorme. Nessuno conosce tutto, e quando collabori al
disco di una persona che ammiri, di un amico, porti un po’ della tua
maniera di pensare la musica in quel lavoro e vedi se funziona. Quando
ho chiamato Céu per il mio album lei è venuta a cantare portando tutta
una trama di sue esperienze, il suo stile, che arricchisce il mio
lavoro.
Qualche anno fa Chico Cesar disse che i tropicalisti
non hanno portato alcun vantaggio alla generazione di musicisti che sono
venuti dopo, perché hanno gettato una sorta di ombra sul lavoro di
questi: agli occhi degli europei e degli americani sembrava non
esistesse altro. Qual è la tua relazione con i «padri» della musica
brasiliana, quelli degli anni 60 e 70, tropicalisti e altri?
Ho ascoltato molto i dischi di Caetano, di Gil
quando ero adolescente, sono stati importanti nella mia formazione
culturale, per la maniera di pensare il Brasile, quello che il Brasile
rappresentava nel mondo. Credo che tutto quello che fu fatto dopo porti
l’influenza di quel momento, ma allo stesso tempo il tropicalismo per me
è una cosa datata, una cosa degli anni 60, che dipinse di un
particolare significato socio-politico quell’epoca. Un movimento
importante perché tutto ciò di cui tratta c’è da sempre: l’assorbimento
di altre culture, l’antropofagia, sono elementi che appartengono alla
cultura brasiliana, ancor prima del modernismo o di Chiquinha Gonzaga.
La cultura brasiliana è dalla nascita una cultura dell’amalgama, del
crossover, della mescolanza. Il tropicalismo è stato così importante
perché in un momento in cui il Brasile era in una fase molto
conservatrice, funzionò come un riflettore che illuminava una cosa già
esistente. L’eredità che ha lasciato consiste proprio in questa maniera
di vedere la musica, la cultura.
Tu sei baiano, e collabori con formazioni come i
Baiana System. La scena a Bahia sembra un po’ ferma dopo il grande
exploit commerciale dell’axè, tu come vedi la situazione, cosa si muove?
Penso che ci sia molto lavoro a Salvador, con i
Baiana System, l’Orquestra Rumpilezz di Letieres Leite, i Retrofoguetes,
Gilberto Monte che è un produttore di là. L’axè è stato un fenomeno
molto forte, non ha permesso che sorgessero altre cose, quindi questa
generazione, dei Baiana System e gli altri, è molto importante perché ha
creato una nuova forma musicale, parallela all’axè, che ogni volta
accresce il suo pubblico e che riesce a prendere quella deformazione
locale, ritmica e portarla in un’altra direzione, un’evoluzione di
quanto stava succedendo in città.
Il Brasile è cambiato molto negli ultimi anni: le
presidenze del PT (Partido dos Trabalhadores), la grande crescita
economica, Gilberto Gil ministro della cultura, ma per i musicisti è
cambiato qualcosa, anche riguardo agli annosi problemi con la Ecad (la
Siae brasiliana) e i diritti d’autore?
Nel ministero di Gil e poi in quello di Juca
Ferreira ci sono stati molti progressi in questo campo, nel ripensare le
questioni dei diritti d’autore, della cultura digitale, della
condivisione dei contenuti musicali. Erano temi che non esistevano in
ambito istituzionale fino ad allora, ma con la fine del ministero di
Ferreira è tornato tutto indietro. Adesso con Marta Suplicy (PT) si
prova a riaprire le discussioni aperte da Juca Ferreira. C’è molto
fermento nei musicisti attorno a questi temi, ma è ancora una situazione
da definire.
Cosa pensi del download gratuito? Romulo Froes disse
che permette una grande libertà di espressione artistica, ovvero una
grande opportunità, tu stesso lavori come indipendente, qual è la tua
opinione?
Io non ne faccio una bandiera, come se esistesse una sola strada. In
concreto, mi sono accorto che se la divulgazione del mio lavoro
dipendesse solo dalla vendita dei dischi, si farebbe molto poco, il
paese è molto grande e le persone non comprano più cd. È molto difficile
in una terra di queste dimensioni arrivare ovunque, attraverso il web
invece è possibile, per questo io rendo disponibili i miei lavori. Costa
molto registrare gli album, renderli scaricabili gratis non mi rende
felice, ma in termini commerciali è preferibile che il mio lavoro si
diffonda il più possibile, così faccio concerti. Certo, se li potessi
vendere potrei pagare meglio chi ci lavora, c’è tanto lavoro dietro ogni
produzione, e sono impegnate molte persone. La mia etichetta in Europa,
la londinese Mais Um Discos, è totalmente contraria, perché sta
investendo molto, dunque qui non i miei non possono essere scaricati
gratuitamente. Non faccio del free download una bandiera, perché penso
che per ognuno sia più o meno importante, o lo sia in un particolare
momento, ma sicuramente non è un dogma che tutti devono o non devono
seguire.
Suonare in Europa: com’è il pubblico, l’attenzione è differente?
Molto, ma ci sono differenze anche fra gli europei.
Quanto più si è nel sud più ci si sente più vicini al pubblico
brasiliano; a Nord il pubblico diventa caloroso giusto alla fine del
concerto, ma d’altro canto quando per esempio suoni in Svezia c’è un
silenzio che personalmente mi emoziona molto, perché è una cosa molto
rara in Brasile, tu che canti e nessuno che canta o parla o fa il tifo..
mi piace molto il silenzio perché soprattutto nelle canzoni lente, è
molto emozionante sentire la voce che vi si spande.
«Sem nostalgia», un disco audace e molto ben
riuscito, un disco di voce e chitarra che va oltre il voz-e-violao di
Joao Gilberto.
Sognavo di fare un disco voce e chitarra, un formato classico della
musica brasiliana, da molti anni, ma non volevo fare un disco come Joao
Gilberto, Caetano, Gil perché l’avevano già fatto loro molto bene, non
avevo niente da poter aggiungere. Ci ho pensato per anni finché poco per
volta non ho trovato soluzioni per fare musiche che, pur essendo solo
voce e chitarra suonassero diverse, e man mano che le trovavo prendevo
coraggio per farlo davvero, questo Sem nostalgia. L’idea era
proprio questa, che la gente non sapesse che era una registrazione solo
con voce e chitarra, ma che pensasse ci fosse un gruppo, batteria,
chitarra, basso. C’era la volontà di decostruire una tradizione che per
50 anni in Brasile si era conservata immutata, tutti registravano dischi
così allo stesso modo. È stata una maniera di omaggiare una tradizione e
allo stesso tempo rompere con essa.
Che musica ascolti, cosa suggeriresti?
Ascolto tutti i tipi di musica, vecchia, nuova, che
non si trova in disco, che scarico da internet. Sono tornato ad
ascoltare i quartetti d’archi di Ravel e Debussy, due capolavori,
bellissimi, molto moderni. C’è una formazione incredibile di soli fiati e
batteria di Chicago che si chiama Hypnotic brass ensemble, che per anni
ha suonato per strada, in metro finché non è stata scoperta. C’è
l’orchestra Rumpilezz del maestro Letieres Leite di Salvador, che prende
la liturgia ritmica dei tamburi del candomblè e vi colloca 16 fiati, un
lavoro di altissimo livello …se avessi il computer qui ti farei vedere…
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