Immagine di un Brasile che
interloquisce con un mondo più vasto della platea statunitense che fa uso di
bossanova come della “pequena notavel” Carmen Miranda, Marisa Monte torna in Italia
ancora una volta, dopo parecchi anni e una figlia, per un’unica data
all’Auditorium Parco della Musica di Roma il prossimo 16 aprile, grazie alla
collaborazione dell’Accademia di Santa Cecilia con l’Ambasciata brasiliana.
Allergica alle definizioni e
capace di sviluppare un universo che resti “infinito particular” pur
nell’utilizzo di un linguaggio pop aperto al dialogo con mondi musicali
differenti e spesso sorprendenti, animale da palco come pochi e fermamente alla
guida del suo lavoro e della sua produzione porta in concerto il suo ultimo
lavoro discografico, l’ottavo, “O que voce quer saber de verdade” mischiando
ancora le carte e avvalendosi di una formazione segnata dalla presenza del trio
basso-chitarra-batteria dei Naçao Zumbi, gruppo di punta dell’esplosione
manguebeat dei primi anni 90 in una Recife, profondo Nordeste, distante anni
luce dalla Rio intellettuale e borghese in cui Marisa nasce e si forma.
Dalla parentesi italiana che la
vede studiare lirica, alla collaborazione con l’eclettico Arto Lindsay, alla
frequentazione assidua dei Novos Baianos e della scuola di samba di Portela,
per cui ha prodotto un album “Tudo azul” e un documentario “O misterio do
samba”, per registrare tante musiche di tradizione orale mai incise prima, alla
rilettura di tutto quanto ha segnato la sua formazione musicale e il suo gusto, da Tim Maia a Caetano Veloso,
alle collaborazioni assidue con una buona fetta delle avanguardie americane,
con maestria e intelligenza e senza mostrare mai timori reverenziali, interprete
globale che riesce a conciliare il successo in patria con quello internazionale
– caso assai raro per il Brasile- con tono lieve e un divertito italiano ha
risposto a qualche nostra domanda.
Marisa Monte e Zeca Pagodinho cantano con A Velha Guarda de Portela nel film "O misterio do samba" |
Parli italiano, hai studiato a Roma e Venezia,
il tuo primo successo è la versione che Nelson Motta, (critico musicale,
giornalista, autore di canzoni, personaggio cruciale della musica del Paese
dagli anni 60 e ancor oggi attivissimo - che in quegli anni lavorava alla Telemontecarlo
di proprietà della Rede globo) ha scritto per te di “E po’ che fa” (Bem que se
quis) di Pino Daniele. Qual è il tuo legame con l’Italia?
Sento l’Italia come una seconda casa, vi ho vissuto un anno
quando ne avevo 18, ero da sola ed è stato per me un momento molto importante,
di maturazione, di grandi esperienze. In Brasile il mio primo successo è stata
la canzone di Pino Daniele, i Tribalistas hanno avuto molta fortuna da voi,
adesso Mina canta una mia canzone (“Ainda bem” in Piccolino), e io ne canto una
sua nei concerti in Brasile (“Sono come tu mi vuoi”). Come sempre è una grande emozione
tornarci adesso, dopo tanti anni, per cantare la mia musica, musica brasiliana,
portando con me questo sentimento di familiarità che ho con l’Italia e con gli
italiani. Il mio italiano è un po’ fuori uso, ma appena torno in pochi giorni
ritrovo tutto, è come fare il download di un programma, una sensazione molto bella.
L'omaggio di Marisa Monte a Cassia Eller
Fra le influenze che da sempre ti vengono attribuite, c’è quella tropicalista. Europa e Stati Uniti sono stati e sono ancora fortemente affascinati da quella stagione, al punto che spesso non riuscivano a vedere altro della musica brasiliana. Per te e più in generale per un’artista della tua generazione cos’è il tropicalismo?
L'omaggio di Marisa Monte a Cassia Eller
Fra le influenze che da sempre ti vengono attribuite, c’è quella tropicalista. Europa e Stati Uniti sono stati e sono ancora fortemente affascinati da quella stagione, al punto che spesso non riuscivano a vedere altro della musica brasiliana. Per te e più in generale per un’artista della tua generazione cos’è il tropicalismo?
E’ stato un momento della musica
brasiliana originale, di invenzione, in cui si affermavano i valori brasiliani
in musica, ed è stato un momento di rottura con i “padroni” dell’epoca, che
marginalizzavano la cultura popolare. I ragazzi del tropicalismo hanno messo
insieme i diversi aspetti della musica brasiliana, mettendo da parte i preconcetti
hanno creato una cosa originale, che affermava l’identità brasiliana. E’ molto
interessante vedere che mentre in Europa il tropicalismo è molto conosciuto,
negli Stati Uniti, a causa della diffusione della bossanova, è stato scoperto
molto più tardi, da poco.
Una lunga collaborazione ti lega con Carlinhos
Brown e Arnaldo Antunes, due musicisti molto differenti, ben oltre e prima del
capitolo Tribalistas, come funziona questo lavoro comune, e perché proprio
loro?
Io credo che la bellezza sia
proprio nelle differenze: Arnaldo è di Sao Paulo, Carlinhos di Bahia e io di
Rio, e questa diversità riflette quella della cultura brasiliana, che si forma
con elementi diversi. E’ molto difficile parlare di cultura brasiliana senza
considerare le differenze, la varietà, le misture. Forse il successo della
mistura che c’è fra noi è ugualmente il riflesso di una mistura più ampia, che
si trova negli elementi culturali del Paese. Quando ero adolescente, Arnaldo
era nei Titas,un gruppo che mi piaceva moltissimo, così quando ho
iniziato a cantare l’ho cercato – perché cantavo musiche del gruppo, e per
chiedergli di cantare le sue canzoni (all’epoca aveva già intrapreso la
carriera solista), e che ne scrivesse per me. Sarà stato il 91. Carlinhos l’ho
conosciuto un po’ dopo, nel 92, suonava con Caetano Veloso, ed era già il
compositore impressionante e il musicista geniale che è oggi. E’ stato tutto
molto naturale, credo che queste collaborazioni nascano dall’ammirazione
reciproca, che ne produce la riuscita, permette uno scambio di informazioni.
Dopo dieci anni di collaborazione è nato il progetto Tribalistas, da allora
sono passati ancora dieci anni, e noi continuiamo a lavorare insieme, c’è una
grande amicizia, e la “fiamma” dell’ispirazione è ancora forte, e viva.
Un altro nome ricorrente nei tuoi lavori è
quello di Arto Lindsay, produttore di 4
dei tuoi album, e di una certa
avanguardia americana, da Zorn a Laurie Anderson, Ribot, Glass passando per
Bernie Worrell e Sakamoto, fino a Erik Friedlander e Marty Elrich che
partecipano all’ultimo disco. Come entra la musica di sperimentazione nel tuo
lavoro?
Tutto è molto sperimentale, perché la musica è una cosa che
nasce dai tentativi, una cosa astratta che va provata per sentire come suona.
Arto è venuto in Brasile a tre anni, ed è tornato negli Stati Uniti a 18, è
cresciuto qui, ha una propria identità brasiliana, conosce perfettamente tutti
i valori della musica brasiliana. E’ stato per me un ponte perfetto fra il
Brasile e il resto del mondo in quel momento. Siamo ancora molto amici, lui
abita a Rio ormai da parecchi anni, io desidero sempre lavorare con lui, lo
sento molto vicino.
Arto Lindsay |
“O que voce quer saber de verdade”, l’ultimo
disco, vede il più potente “power trio”
della musica brasiliana degli ultimi 15-20 anni, Lucio Maia, Dengue e Pupilo,
chitarra, basso e batteria della formazione manguebeat Naçao Zumbi, che sono
con te anche in tour. Cosa ha portato nel tuo suono, e cosa porta in concerto?
Loro sono molto speciali, suonano
insieme da 20 anni: non sono un basso, una chitarra e una batteria, ma una
macchina che lavora insieme con una identità propria. E’ un onore avere
musicisti così, con una identità di questo tipo. Li ho invitati a suonare con
me nel disco, abbiamo fatto altre piccole cose insieme, ma non sapevo di
poterci contare per il tour, perché hanno la loro carriera, i loro impegni.
Invece hanno voluto esserci, ed ora è
quasi un anno che siamo in giro, e funziona benissimo. Roma è una delle pochissime date del tour europeo
in cui suoneremo senza scenario, perché non è stato possibile montarlo. Mi
piace moltissimo la Sala Santa Cecilia, ha un’acustica perfetta, ma è un
peccato che non si possa allestire la scena, in quella sala magica. Oltre ai Naçao Zumbi c’è un tastierista che
suona con me da tanti anni (Carlos Trilha), Dadi (Carvalho)alle chitarre che
pure è con me da molto ed è stato in tour coi Tribalistas, e poi c’è un
quartetto d’archi: due violini, una viola e un violoncello. E’ un concerto
molto versatile, con musicisti di grande esperienza, davvero siamo molto felici
di essere insieme.
Naçao Zumbi |
La musica alta e la musica bassa, la tradizione
e la sperimentazione, l’atteggiamento “antropofagico” dal manifesto del 1929 di Oswald de Andrade,
passando per tropicalismo e per il “vale tudo” di Tim Maia, fino ad arrivare
alle critiche che ti sono state mosse negli ultimi mesi di troppa indulgenza
per la musica “brega” (musica romantica sciatta e banale), qual è la tua idea?
Io non lavoro con le etichette,
io lavoro con i sentimenti, le emozioni, i messaggi, dunque a me non servono
molto queste critiche perché io non ho preconcetti. I preconcetti non aiutano
la creazione, piuttosto servono a chi ci lavora, a chi lavora con le
definizioni, i preconcetti, i limiti. Io non cerco limiti quando voglio creare,
e penso che anche i tropicalisti abbiano subito le stesse critiche. Quello che
per me resta più importante è che il mio lavoro comunichi con l’anima di tante
persone, cerco questo, trovare una comunicazione con altre anime e con i
sentimenti più profondi. E’ possibile farlo con Villa Lobos come con qualsiasi
stile, qualsiasi genere, qualsiasi canzone, ed è il più bell’insegnamento che
può dare il Brasile: non essere separatisti, ma mescolare e accettare gli altri
come una cosa familiare, interessante.
Sei sulle scene da anni e hai diversi dischi
all’attivo, c’è un tratto comune nella costruzione dei tuoi lavori, nella
scelta dei brani, del repertorio, dei musicisti? Dei luoghi o dei momenti nei
quali componi meglio?
Il silenzio è il punto d’inizio
per la musica, è il suo comincio. Il silenzio è molto musicale e deve esistere
perché sia riempito di suono. A me serve solo un luogo tranquillo, perché sia
più facile sentire le musiche che sono intorno a noi.
Dilma Roussef, la presidente, la sua istituzione
del giorno nazionale della MPB il 17 ottobre, data di nascita di Chiquinha
Gonzaga. Il Brasile di Dilma, la situazione femminile e quella delle musiciste:
cosa è cambiato?
E’ un cambiamento molto sottile, ma credo sia molto
importante avere una donna nella carica più alta del Brasile, Dilma ha un
consenso impressionante, credo stia facendo un bel lavoro, è una voce di
comando potente. Certo sarebbe molto meglio se potessimo avere un maggiore
equilibrio fra i generei nei posti di comando in tutte le sfere del potere
pubblico. Dilma è la prova che siamo capaci, le donne sono molto attente,
pratiche, hanno giudizio, e questo è parte della loro natura.
Le
musiciste brasiliane si liberano dal ruolo esclusivo di interpreti e diventano compositrici,
arrangiatrici, produttrici, una nuova generazione viene su più “politically
uncorrect”, penso a Gaby Amarantos, Andreia Dias o Karina Buhr. Tu che sei nel
mezzo fra le giganti degli anni passati e le nuove 20-30enni come le vedi?
Mi sembra una cosa notevole, che tutte le cantanti della nuova generazione
oltre a essere ottime interpreti siano anche compositrici e tutto il resto. E’
una maniera di portare il sentimento, la sensibilità femminile nella musica.
Soprattutto trovo molto importante che le donne compongano, perché fino a pochi
decenni fa le canzoni interpretate da donne erano sempre scritte da uomini. Forse è un effetto della
maggiore partecipazione delle donne alla vita della società, ed è molto
importante che succeda finalmente anche in musica.
Intervista di Sara Guabello - Il Manifesto 08/04/2013 (versione estesa)